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DOGVILLE
(DOGVILLE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 16 novembre 2003
 
di Lars von Trier, con Nicole Kidman, Harriet Andersson, Lauren Bacall, Jean-Marc Barr, Paul Bettany, James Caan, Ben Gazzara (Stati Uniti - Danimarca, 2003)
 
Una cosa è certa. Ogni apparizione di un film di Lars Von Trier rappresenta un caso. Le invenzioni di un artista genialoide, com'è certamente il regista danese, potranno piacere; come a chi scrive, folgorato da quella straordinaria storia d'amore e di follia, di fede e di trasgressione, misticismo e sensualità, di scontri cupi fra esigenza di spiritualità e repressione religiosa, ansia di abbandonarsi all'incontro fisico con il prossimo, con la natura, tipico di tutta una cultura, che era stato BREAKING THE WAVES.

Dei suoi film si può, perlomeno in parte, dissentire anche violentemente: come per quell'ultimo episodio della "trilogia del cuore d'oro", una nuova martire pronta al sacrificio ed all'espiazione, una buona dose di manipolazione dello spettatore, una sovrabbondanza di eccessi e di piani di lettura come di traballanti movimenti di macchina che caratterizzavano il celebrato e palmato DANCER IN THE DARK.

Manipolatore eccelso (tutto sta a decidere se questa non sia comunque la caratterista di ogni artista che si rispetti) il danese lo è come pochi. E nessuno mi toglierà dalla testa che dopo gli eccessi sui quali sui quali si era costruito DANCER il nostro abbia fatto una scelta precisa a proposito di DOGVILLE: tendere al contrario, alla semplificazione, alla stilizzazione. Una pace dopo la tempesta: ma, come dubitarne, una pace esasperata.

Ecco allora che DOGVILLE è girato interamente in studio: un immenso pavimento nero (che la cinepresa nella prima inquadratura abbraccia nella sua totalità dall'alto), sui quali sono tracciati col gesso dei tratti che delimitano gli spazi, il piano del villaggio. Qualche accessorio, una sedia, un letto, lo stipite di una porta, un frammento di campanile, un cerchio irregolare con la scritta "cane". Una strada che sbuca dal nero sullo sfondo, un albero di plastica, e albe, tramonti costruite coi filtri di gelatina colorata sui riflettori. Teatro, dunque: con la volontà di rendere trasparente la visione, eliminare le pareti, le sovrastrutture naturalistiche, tutti gli impedimenti, insomma, che rendono difficile la visione, l'analisi di una situazione, di un gruppo di personaggi. Il teatro epico di Brecht, naturalmente, con la sua celebre distanziazione: e addirittura Von Trier che dichiara che l'idea del film gli è nata ascoltando la canzone di Jenny-dei-Pirati composta da Kurt Weil per l'Opera da Tre Soldi, con la sua storia terribile di vendetta totale. Ma letteratura, pure: le didascalie, che annunciano un prologo e nove capitoli, ed il commento fuori campo, incessante, la voce puntigliosa del narratore, oltre tutto nella dizione inglese in un film che ci parla dell'America, che scandisce la progressione come in un romanzo di Dickens.

Tutto questo per immergerci nella Città appropriatamente definita dei Cani: minuscola comunità, microcosmo di umanità perduto nelle Montagne Rocciose, con i suoi abitanti ai confini della sopravvivenza (siamo nella Grande Depressione) ma pure della difesa dei propri miserabili equilibri. Gentilezza e buone maniere, ipocrisia e puritanesimo, frustrazioni e prevaricazioni. E diffidenza, inutile dirlo, nei confronti di ogni elemento estraneo: è qui che giunge per trovare rifugio e conforto l'onesta e coraggiosa Grace, pupa impellicciata in fuga dai gangster. Accolta con diffidenza e quindi con mal celata benevolenza: ma a condizione di essere ripagati da una serie di prestazioni che finiranno per trasformarla progressivamente nella cagna della Città dei Cani.

Grace è Nicole Kidman; ed il film è stato pensato e scritto in funzione dell'attrice più desiderata (e forse più brava) che un regista possa sognare. Così come al centro di DANCER IN THE DARK c'era Bjöork. Non solo Donne, ma entità umane in carne ed ossa: che con i loro fremiti, la loro sensibilità ed intuizione, la loro autonomia, la loro sensualità si oppongono al processo (radicale, crudele) con il quale il regista costruisce le loro vicenda. E gran parte del fascino (come pure delle contraddizioni) del cinema di Lars Von Trier si costruisce su questa contrapposizione. Con una differenza, in DOGVILLE: che, forse perché semplicemente stufo di martiri condiscendenti, Grace (ma rimane pur sempre quel nome così legato al martirio…) non solo si ribella. Ma grazie a quel potentissimo boss che gli fa da padre, ordinerà la distruzione di tutta quell'infame costruzione.

Con la sua sensibilità sopra le righe, con la grazia e la meraviglia della sua apparizione destabilizzante, Nicole Kidman rende a DOGVILLE tutta l'umanità che l'artificiosità del regista arrischia (più o meno coscientemente) di togliere: arrischiando di confinare il film nei territori predeterminati della parabola morale e sociale.

Anche se la preoccupazione del film è quella di riflettere sulla natura umana e sulle contraddizioni imposte dalla convivenza, sui condizionamenti imposti dall'economia o dalla morale, sulla scelta dei comportamenti individuali e la libertà di coscienza, DOGVILLE rimane un film di Lars Von Trier. Nel quale l'originalità, l'intelligenza e la sorpresa provocata da un procedimento arrischiano di avere il sopravvento sulle vibrazioni umane indotte dalla rappresentazione. Che sono le sole che contano, e rimangono nelle memorie.


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